testi critici

LA TERRA DI NESSUNO - LAMBERTO PIGNOTTI



Ha ragione Eugenio Miccini

quando, all’inizio di un suo

discorso critico su Michele

Lambo,
lo individua come uno scultore che scrive,
che cioè “incontra e intriga segni della scrittura
dentro una congerie discretamente
pronta a subirne tutta la tirannia”.
Fra coloro che scrivono, tuttavia vi sono
quelli che intendono dire tutto,
ma proprio tutto, e quelli che preferiscono
evocare, alludere, essere reticenti.
I poeti di razza appartengono
alla seconda categoria qui delineata.
Comunicano omettendo, e omettendo
lasciano intendere;
fanno lavorare la fantasia del lettore.
Anche lo “scultore-scrittore” Michele Lambo
plasma, accosta e assembla materiali,
lavora su tre dimensioni, scrive e
comunica in questo senso.
Avvalendosi strutturalmente del ferro,
del piombo, del cemento, del legno,
impiegando variamente sabbia,
gesso, pigmento, spago, carta,
e anche caratteri tipografici,
Lambo allude talora all’immagine del libro,
all’idea della pagina,
ma come in un rebus senza chiave,
come in una miniatura senza cartiglio,
suggerisce al suo lector in fabula
le più immaginifiche interpretazioni
che gli consentano di affrontare il viaggio
in un continente che i cartografi dell’arte
La terra di nessuno
-anche di avanguardiapensavano
di aver da tempo
sistemato
e distribuito nei suoi confini,
e che invece torna ad essere
ogni giorno di più illimitato
e mitologico.
Per chi ha voglia di esplorare si
profila insomma davanti agli occhi
ancora la leggendaria “terra di nessuno”.
Una terra che certamente deve
riservare le più svariate configurazioni,
sorprese, rivelazioni.
Non per nulla, a proposito di Lambo,
Franco Spena mette a fuoco
“il conformarsi di uno sguardo
che cerca nella materia
le archeologie di una parola
che si era nascosta per porgersi nuova
allo scopritore di segni”.
I materiali, le scritture, le allusioni di Lambo
si prospettano antiteticamente come invenzione archeologica,
come sperimentazione mitologica,
nell’intento di risemantizzare la scultura.
In generale un simile intento
era perseguito dagli scultori osservando le mosse dei pittori
che si trovavano nei dintorni.
Oggi qualcuno di loro,
come Michele Lambo,
preferisce dare delle occhiate interessate
ad altri compagni di strada e di avventura,
intravedendo in certi scrittori,
meglio se poeti autenticamente reticenti,
meglio ancora se poeti dediti
a più codici e a più media,
la possibilità di uno svolgimento
tridimensionale
di analoghe ragioni spregiudicatamente,
progettualmente e costruttivamente evocative.
Lamberto Pignotti




Matero-scritture. - FRANCO SPENA





La parola che è nelle opere di Michele Lambo è

parola che non significa, ma è portatrice di

infiniti sensi che coinvolgono vie di pensiero

segrete e nascoste. Nella metafora di grandi
pagine di libri che sembrano odorare ancora
dell’umido della terra, dalla quale possono
essere state dissepolte. L’artista costruisce
cosi dei discorsi muti rivolti all’estetico per
pensare una matero-scrittura impossibile
che, rifiutando il peso dei significati, è solo
forma non compiuta e materia, piombo fuso
mescolato a sabbie, cemento, ceralacca e
terre. Costruisce totem, icone che sanno di
segreto e di sacro, risultato di un’alchimia
nascosta e non svelata, che comunque
è segno e che continua ad affascinare,
come opera di meraviglia, per il mistero
di se stessa “Le parole servono a dire ciò
che le stesse parole non riescono a dire”
(Sony Labou Tansy). Vanno verso la scrittura
le parole non solo per riconoscersi, ma
anche per farsi forma. In essa il pensiero
scorre lungo la mano che scrive e coglie i
fremiti, le esitazioni, le emozioni, i ritmi e le
pause di un flusso che nella terra o nella
carta diviene anche dimensione e volume.
Il pensiero, cosi, attraverso la scrittura, si
fa anche spessore e colore, si fa traccia e
percorso, si fa disegno di un invisibile che
di tanto in tanto si svela. Secondo i tempi di
questo canto l’Artista costruisce con la scrittura
opere che fanno del segno visione di un
pensiero che si esprime per suggestioni, per
nascondimenti, per accenni, per imprimiture
profonde, per l’incontro continuo tra la materia
e la parola... L’artista dialoga con il silenzio
che echeggia all’interno dei materiali che
contengono la parola che attende di essere
richiamata al tempo che la dice... Segno,
traccia indelebile del passare, visibile e invisibile,..
effimera e forte come la roccia,
essa, la parola, è pronta a farsi imprendibile,
cementificata nei testi materici dell’artista.
Una materia che ingloba la parola e si con/
forma nel farsi dimensione di un pensiero.
Cosi il cementificare, l’allineare o il classificare,
il separare, il comporre, annegandoli in
uno spessore terroso dalle cromie bruciate,
caratteri tipografici legati spesso tra loro dal
piombo fuso, che suggerisce lontane alchimie,
evidenzia il conformarsi di uno sguardo
che cerca nella materia le archeologie di una
parola che si era nascosta per porgersi a nuove
rivelazioni, a nuove nascite, per porgersi
nuova allo scopritore di segni
.Franco Spena





PER UNA LETTURA DI MICHELE LAMBO - EUGENIO MICCINI


Per una “lettura” di Michele Lambo

Proprio per comodità analitica provo a classificare

Michele Lambo uno scultore, ma uno scultore sui

generis, un artista, cioè, che lavora a tre dimensioni
e che tuttavia è fortemente tentato da una presunta
superficie piatta, bidimensionale del supporto, che
deve contenere iscrizioni. Michele, in altre parole, è
uno tra i primi scultori che “scrive”, che cioè incontra
e intriga i segni della scrittura dentro una congerie
discretamente pronta a subirne tutta la tirannia.
E’ ormai accertato, perfino in un recente seminario
organizzato dalla Biennale Internazionale di Venezia
intitolato “Lo scambio tra le arti del Novecento”, il
carattere eclettico dell’arte del nostro secolo, non già
per la miscidazione degli stili; quanto piuttosto per certi
insistiti sconfinamenti di e tra linguaggi diversi. Ci sono
pratiche artistiche, ancora in atto come la “Poesia
Visiva”, che dagli inizi degli anni ‘60 compiono interazioni
tra la parola e l’immagine, o come il “libro d’artista”,
che situa la scrittura e quant’altro - magari
attuandone una regressione semantica alla maniera
della “Poesia Concreta” - in formazioni a struttura geometrica
sopra supporti plastici, rigidi, allusivi ad altri
oggetti che solitamente ospitano scritture: libri, lapidi,
insegne, ecc. Recentemente ho ideato e curato la mostra
“Musica e no”, che documenta, appunto, la combinazione
tra l’arte dei suoni e delle sue proprie scritture,
della musica e delle sue icone o del suo valicare
oltre i suoi “specifici”, invadendo aree perfino pittoriche.
Ebbene, credo che Michele Lambo, istruito e
affascinato da tutto questo, in questa tendenza delle
arti si riconosca. Non è senza qualche ragione che io
sia convocato, insieme ad altri suoi esegeti, a testimoniare
con questo scritto non già la sua appartenenza
al settore, ma la qualità del suo lavoro.
Nel caso di Michele, quella sua attività estetica che
ho definito scultorea non si potrebbe a rigore chiamarla
precisamente linguaggio. anche se le funzioni
cui assolve sono, appunto, assolte da quella sorta di
“insiemi” che sono i suoi oggetti, come accade nel
cinema. Nell’arte, si sa, la funzione poetica non
annulla le altre ma le domina gerarchicamente: tutto
le materie, le forme, i segni - parla di sé e delle sue
relazioni interne, della sua organizzazione sintattica.
L’antica classificazione “funzionalistica” di Roman
Jakobson, anche se ormai in disuso presso i semiologi,
ci consente tuttavia di considerare il valore estetico
come qualcosa che, pur riconoscendo le cose,
le trascende. L’artista - com’è il caso di Marcel Duchamp -
attua uno “spostamento (“ostranenje”, secondo
i formalisti russi) delle cose, e situa in contesti
e rituali estranei alle loro funzioni primigenie e ai
loro riti consueti. Michele, tuttava. non compie l’atto
estremo del più estremo dei dadaisti, non avoca a
sé il potere demiurgico che, nella filosofia platonica,
è il potere dell’artefice del mondo che ordina la
materia informe ad immagine e somiglianza di una
realtà ideale, come poteva accadere nei rituali comunicativi
dei primitivi linguaggi “ostensivi”, bensì
maneggia le materie con la praticità dell’artigiano,
trasforma e crea ie cose. lntanto proviamoci a fare una
veloce tassonomia dei materiali
impegnati nelle tavole di Michele:
questi “insiemi”, come ho detto, sono - scusandomi
per la tautologia - assemblati per addizione,
cioè plasmati (e non “cavati”
come invece voleva Michelangelo).
Michele, prima ancora delle regole compositive, fa la
prima opzione delle materie, al tempo stesso significanti
e significate: legno, spago, sabbia, gesso ferro,
piombo, cemento e lettere tipografiche. Ecco che
quest’elenco suggerisce a prima vista certe qualità
di ciò che deve andare a farsi opera.
Per meglio dire, fin dalla scelta delle materie, prefigura
l’esito finale del lavoro, cioè trasferisce certe qualità
delle materie all’opera. E’ in questo senso che
citavo la dicotomia saussureana del segno linguistico
assunta qui dalle materie: significanti (che esibiscono
le cose) e significate (che con esse indicano
un senso). Non vorrei troppo azzardare chiamando
quest’opzione “categoriale”, cioe decisiva e preordinata
ad un fine.
Il Nostro sceglie, dunque, l’opacità, la duttilità,
la plasticità. E dove sia compatibile
con la natura dei materiali
medesimi, stende un velo di quella sostanza
principe della pittura che e il pigmento. Ma è un
pigmento fatto di sostanze terrose che coprono i
supporti e li intridono, che aggrumano la sabbia, che
intonano cromaticamente il tutto. Non potrà sfuggire
allo spettatore l’evidente traslato metaforico: dal terriccio
alla Terra, al pianeta origine e destino delle
sostanze e delle opere umane. Proprio la scultura,
che pareva da sempre destinata ad incontrare la luce
rammenta quì le sue antiche apparenze cromatiche.
Sappiamo, e non da molto tempo, che la statuaria
greca era dipinta. Tutte le vecchie metafore della
letteratura critica che invocano il candore, la purezza,
la suprema chiarità, ecc., che potrebbero forse essere
più giustamente allusive in epoche attuali, sono
state retroattivamente ricusate. Ma in questo caso,
nel caso di queste tavole di Michele, ripeto, la luce
che le incontra non le solleva da terra, ma anzi ve
le riconverte ché il volo di queste cose, pur sollevandosi
a dignità di simbolo, è, per dirla con Eugenio Montale,
“della razza di chi rimane a terra”.
Le forme, seppure prigioniere dei pigmenti,
faticosamente mostrano alcune sicure epifanie.
Ne fanno fede i titoli: “Pronaos”, “Testo di legno”,
“Off/On”, “Arché”, “Dike”, “Metascrittura”, “Nomos”,
“libro/farfalla”, ecc. E’ già il primo atto ermeneutico
suggerito dall’autore e in quanto tale del tutto
arbitrario ma che potrebbe indirizzare ogni
interpretazione successiva. Evidentemente, si fa per
dire, questi oggetti a mezzo tondo, forse in virtù di
quella tirannia delle lettere tipografiche saccheggiate
in qualche vecchia linotipia, ammiccano al libro, ad
un libro non scritto, ma formalmente simulato e titolato
e che quindi nasconde un segreto, come scrive
Franco Spena, il migliore commentatore dell’opera
di Michele Lambo.
Tempo addietro, per un poeta milanese che mi chiedeva
una prefazione ad un suo libro, avevo estratto un
detto di Oscar Wilde dedicato alle donne: “Le donne
non hanno niente da dire ma lo fanno così bene”.
Il poeta forse non ha gradito, ma ha capito dopo
l’ntenzione mia di concludere che si trattava di un
esercizio pittorico, ii suo, e non propriamente letterario.
Si sa, per antica consuetudine iogica, che anche
le cose prive di senso un senso ce l’hanno. Sta a
noi, esegeti o semplici iettori, per conciudere, cogliere
questa tensione verso il senso indicatoci da
Michele: percorrere mentalmente, tento di capire, il
Principio, la Legge, il Tempio, la Giustiria, la Misura...
L’opera, quindi, vuole paradossalmente essere attraversata
dalla sua... didascalia, come nella musica
dove i segni all’inizio o nel corso di ogni partitura,
indicano agli interpreti la scala. la tonalità, i tempi e i
modi... Certamente, gli argomenti introdotti dai titoli
di queste tavole, questi temi così solenni ai quali
sono stati eretti sublimi monumenti simbolici, hanno
avuto il libro come luogo (anche nel senso di logos)
sacrale. II titolo perciò non ha niente di descrittivo o
referenziale, bensì un senso ottativo, come per tutta
l’arte (che io considero un’attività desiderante) anche
la più rappresentativa. Dalle profondità della terra o
della storia Michele ci addita una suprema allegoria,
una selva di simboli inesplicabili ma sicuramente
umani di chissà quale perduta o futura condizione
della nostra cultura.
“Anche il silenzio è parola”.




LA VIDEOARTE DI MICHELE LAMBO



Nella lotta titanica in atto tra la razionalità che tenta di governare i processi creativi e la fantasia che al contrario vuole con ogni mezzo sottrarsi alla scomparsa del proprio ruolo; tra un Moloch che ambisce a divorare, tritare, ridurre in poltiglia l’uomo per farne un numero, un faber al servizio di una idea di carattere utilitaristico secondo la previsione di Marcuse e la volatilità del sentire poetico capace ancora di far sognare un destino di libertà, si collocano alcune operazioni artistiche del più recente passato e del presente tra cui quella di Michele Lambo.
Non nuovo ad esperienze ultralineari rispetto alla poesia da libro, di versi cioè sorretti da una semplice logica interna fatta di ritmi o rime, di disposizioni sulla pagina di parole in forma irregolare (tipiche del futurismo) per sottrarsi alla staticità ma senza tuttavia creare movimento, dinamismo (si veda la sua Poesia metropolitana), è andato elaborando una teoria del poiein fondata sull’uso del video quale mezzo rivoluzionario delle tecniche puramente artigianali del creare arte. Non dunque più oli, pennelli e vernici; martello e scalpello; macchine fotografiche digitali o reflex; concetti inscatolati ed esposti quasi fossero feticci né azioni istantanee conosciute come happenings o body art ma moltiplicazione di gesti, immagini e parole fusi in un velocissimo vortice, atemporale in quanto arricchito di suoni senza facile datazione, sublimato da dissolvenze versate talvolta nell’acqua di un mare in subbuglio.
Le citazioni poi, o gli omaggi a funambolici artisti quali Duchamp o Man Ray dicono meglio di qualsiasi manifesto teorico dell’appartenenza di Michele Lambo all’avanguardia in parte già teorizzata da Rossana Apicella sub specie Singlossia e praticata anche da Vira Fabra con gli Ultimi tattili ai margini della memoria. Esperienze datate ormai quelle dell’una e dell’altra. C’era bisogno di un superamento che prendesse atto dell’evoluzione della tecnica nonché dei suoi strumenti, e altresì delle sempre maggiori capacità immaginative legate ai processi di trasformazione del reale.
Con Lambo e con gli ancora troppo pochi videoartisti si può affermare che l’irrealtà o la surrealtà, l’estrapolazione del pensiero che si fa arte, il sogno che diviene oggetto di culto quando viene materializzato non sono finiti. Godono anzi di buona salute.

Ignazio Apolloni





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